Chi siamo
Ho vissuto fin da bambina l’emozione della vita in campagna e quel che più mi è rimasto nel cuore è stata la produzione casalinga della pasta.
Ricordo vividamente la semina del grano, in ottobre. Mio padre attaccava la seminatrice Carraro a un trattore Landini 25 testa calda, nuovo di zecca. Appena di ritorno da scuola, mio padre accendeva la bombola del gas sotto la testa del trattore e, quand’era bollente, faceva girare con le sue forti braccia la puleggia, in senso orario e antiorario, fino a che il trattore non rombava e allora partivamo!
Mio padre, con un secchio, versava nella tramoggia della seminatrice i chicchi ambrati del grano, che scendevano veloci attraverso dei buchi in tubi movibili, a loro volta collegati a specie di stivali di ferro fino al terreno, dissodato e reso fine da precedenti lavorazioni. Una leva manuale si alzava e si abbassava per aprire e chiudere i buchi della tramoggia da cui scendevano i semi. Io stavo seduta su un sedile di ferro posizionato dietro la macchina e controllavo che i chicchi scendessero in modo regolare e non ci fossero intoppi.
Il sedile era scomodo e duro ed ogni tanto sobbalzavo, ma questo non mi pesava, la mia attenzione era attratta dallo scorrere dei chicchi perché sapevo che da ogni cariosside ben interrata sarebbe nata una nuova pianta di frumento.
Intuivo la forza vitale del seme, non conoscevo nei particolari la sua composizione, ma sapevo che aveva in se stesso potenzialità segrete: da solo e sempre in silenzio, senza arroganza né boria, avrebbe compiuto tutto il suo lavoro con competenza: avrebbe prodotto spighe rigogliose.
Giungeva l’inverno con la neve; il grano, appena nato, era protetto dal gelo da quella coltre soffice e bianca e una gioiosa tranquillità, mista alla speranza di una buona annata, si godeva in famiglia.
In primavera la neve si scioglieva, i campi diventavano verde chiaro: il grano era nato e cresceva a vista d’occhio. I giorni passavano e le piante cominciavano la spigatura; mio padre osservava con trepidazione i cambiamenti del cereale e anch’io provavo gli stessi suoi stati d’animo; imparavo a osservare, giorno e notte, il cielo limpido o burrascoso per prevedere i mutamenti che avrebbero condizionato l’annata.
A poco a poco il frumento maturava e stupita contemplavo le spighe aristate o mutiche che assumevano tutti i toni del giallo.
Finalmente giungeva il momento dello sfalcio del grano, a giugno; la mietilega - una macchina con due ruote che falciava il grano con una lama - legava il grano in covoni con uno spago e lo depositava sui campi in modo ordinato. Dopodiché, con le forche i covoni venivano caricati su un carro e portati sotto il portico in attesa della trebbiatrice. Le spigolatrici occupavano immediatamente i campi, raccoglievano le spighe rimaste e le portavano via.
Alla fine il raccolto era al sicuro: nove mesi di attesa per quei chicchi dorati che ci avrebbero assicurato pane, pasta fresca e secca, “schite”, torte, focacce e biscotti per tutto l’anno.
Dopo pochi giorni dalla trebbiatura, il mio nonno caricava alcuni sacchi pieni di grano su un carretto a molle a due ruote trainato da un grosso e vecchio cavallo e con lui andavo al mulino a pietra per far macinare il grano e trasformarlo in farina.
Quale profumo si sprigionava al ritorno a casa all’apertura del sacco pieno di farina! Ed ecco la magia: la pasta.
La mia nonna versava sul grande tavolo di legno letteralmente una montagna di farina color nocciola chiaro (perché conservava la parte superficiale della cariosside) e, con le mani, formava un avvallamento sulla cima della montagna, come fosse un vulcano, dentro sgusciava delle uova fresche: uova di gallina, uova di anatra, di oca e, quando c’erano, anche di quaglia. Con competenza amalgamava le uova alla farina ed impastava il tutto.
Alla fine affondava le dita nell’impasto per valutarne l’elasticità e lo poneva con delicatezza sotto un telo bianco per lasciarlo riposare. Nel frattempo andava a scegliere sotto il portico le paline più dritte, che sarebbero servite per collocarvi le tagliatelle da far essiccare.
Dopo una mezz’oretta la nonna prendeva un grosso e lungo matterello e incominciava ad appiattire l’impasto con forza; era un lavoro affascinante.
La sfoglia veniva tirata, rivoltata e compressa in modo uniforme, diventava un disco quasi perfetto e sempre più grande; arrivava ai bordi del tavolo e poi scendeva giù, come fosse una larga tovaglia giallognola.
La nonna tagliava un pezzo di sfoglia, la arrotolava su se stessa come un salame e incominciava a tagliare sottilissimi tagliolini che arieggiava con le mani, li mescolava a della farina e li metteva su un altro tavolo. Poi formava tagliatelle più larghe che posava sulle paline di legno per farle asciugare.
In genere i tagliolini o le tagliatelle si cucinavano con i fagioli (tajarei e fasò) e le verdure dell’orto fresche o conservate. Era il piatto comune a tutte le famiglie contadine. Un cibo semplice che aveva una lunga storia fatta di tanta passione, sacrifici e laboriosità.
È passato tanto tempo da quegli anni, gli studi e il lavoro mi hanno portata in città, ma il desiderio di recuperare le vecchie tradizioni e di riprodurre quella pasta è rimasto.
Ecco perché è nato il nostro laboratorio: per tramandare un piatto sano, nutriente, una pasta eccellente, del territorio, fatta con materie prime di qualità, quale è la semola del grano Senatore Cappelli coltivato nella nostra azienda.
Sicuramente gli scenari, i significati e le atmosfere di un tempo sono irripetibili, la tecnologia ha alleviato le fatiche, ma la dedizione, la pazienza e l’operosità necessari a creare una filiera sicura, dalla semina di un grano antico a un buon piatto di pasta non sono mutati.
Marisa Sforzini Orlandini